#56 Tenacizzanti temporanei: funzioni e azioni
Indice
- 1. Identikit
- 2. Atomizzato e contenuto d'acqua
- 3. Barbottina: fase di additivazione e impatto reologico
- 4. Elasticità e punto di rottura
1. Identikit
I tenacizzanti temporanei sono additivi costituiti da molecole, polimeri organici o componenti inorganici in grado di svolgere un’azione legante nei confronti delle materie prime dell’impasto ceramico (sabbie, feldspati, argille etc.). Si tratta di miscele i cui componenti producono interazioni chimiche tra le particelle che aiutano la fase di pressatura e promuovono l’aumento del modulo di rottura dell'impasto facendo sì che le piastrelle, una volta pressate, siano più flessibili e resistano meglio alle vibrazioni e ai movimenti della linea di produzione.
Dal punto di vista chimico, il tenacizzante contiene dei gruppi funzionali (parti della molecola in grado di interagire chimicamente con altri materiali) capaci di promuovere un’azione legante / coesiva tra le micelle argillose e le materie prime inorganiche dure. L’additivo, in termini piuttosto semplici, unisce tra loro le particelle inorganiche sviluppando una rete che va ad incrementare la resistenza meccanica del pezzo dopo essiccazione.
Per comprendere meglio e in modo intuitivo il potere sprigionato da un additivo tenacizzante utilizziamo, come già in passato, un esempio preso in prestito dal mondo della cucina che, per quanto possa apparire banale, contiene in sé il senso principale del tema.
Immaginiamo di dover cucinare dei biscotti e di avere l’impasto ancora crudo. Esso risulta, com’è noto, molto fragile. Se si prova a spostarlo, si rischia di romperlo o di deformarlo. Se invece si potesse aggiungere qualcosa all’impasto così da renderlo più tenace — cioè meno friabile e più resistente — senza però modificarne il risultato finale dopo la cottura, la produzione sarebbe certamente più al sicuro da problemi che potrebbero comprometterne il processo. Ecco, il tenacizzante temporaneo svolge esattamente questo ruolo nei confronti delle piastrelle crude.
Di norma si parla di tenacizzanti temporanei in funzione del fatto che la loro azione si sviluppa in pieno solo nella fase di precottura così da preservare il materiale da possibili danni. In questo senso si differenziano dai tenacizzanti tout-court che, una volta inseriti all’interno dell’impasto, aumentano in via definitiva la resistenza meccanica della piastrella, anche in fase di post-cottura. Esistono diverse tipologie e/o categorie di tenacizzanti che, in base alla formulazione, possono enfatizzare alcune reazioni piuttosto che altre. In linea generale è tuttavia possibile identificare due principali macro insiemi:
- Tenacizzanti inorganici: Si tratta in genere di materiali di origine minerale (argille, feldspati, carbonati, ossidi, etc.) che aiutano a rendere maggiormente resistente il corpo ceramico. Nel caso di impasti poco plastici, ad esempio, un tenacizzante di origine inorganica (che contiene minime quantità di argilla) può risultare decisamente efficace. Prodotti generalmente in polvere che non bruciano in cottura
- Tenacizzanti organici: si tratta di prodotti di origine o di derivazione naturale come zuccheri, amidi nativi o modificati, derivanti della lignina, etc.) oppure di resine sintetiche (polimeri)i. Queste materie prime in genere sono solubili o disperdibili in acqua. Per loro natura, questi prodotti bruciano in cottura ed è opportuno che decompongano in modo ottimale a basse temperature per non creare difetti di cuore nero
2. Atomizzato e contenuto d'acqua
L’azione del tenacizzante può svilupparsi in più direzioni ma di norma si sprigiona sia nei confronti dei singoli granuli di atomizzato che sul corpo ceramico nel suo complesso.
Com’è noto, i granuli di atomizzato si formano all’interno degli atomizzatori dove la barbottina liquida viene nebulizzata sotto pressione e sottoposta a flussi di aria calda che provocano una rapida evaporazione del contenuto di acqua trasformando in granuli “secchi” sferici le goccioline che compongono la sospensione. I granuli di atomizzato mantengono tuttavia una percentuale di umidità al loro interno che di norma si attesta tra il 5% e il 7% e che è funzionale e necessaria al corretto svolgimento della fase di formatura (compattazione per grandi lastre) o tradizionale pressatura. Un atomizzato privo di un minimo contenuto di acqua sarebbe in tutto e per tutto ingestibile. Cosa significa?
Significa che l’acqua, già di per sé, svolge per certi versi una funzione coesiva e legante. Proviamo ad immaginare di realizzare un castello di sabbia con una sabbia completamente asciutta e senza l’ausilio di una percentuale di acqua: l’operazione non è percorribile in quanto i granelli, non essendo tra loro coesi, non assumono la forma che si desidera imporre loro. Allo stesso modo, tuttavia, un’eccessiva presenza di acqua porterebbe ad un risultato altrettanto negativo. In questo secondo caso, la sabbia risulterebbe infatti eccessivamente dispersa all’interno della fase liquida che impedirebbe (per altri motivi) la giusta e appropriata compattazione.
Fatti i dovuti distinguo, tale meccanismo è riscontrabile anche lungo le linee produttive ceramiche. L’atomizzato deve contenere una percentuale di acqua (o umidità residua) che possa correttamente coadiuvare le operazioni che si svolgono prima delle applicazioni che il corpo ceramico, una volta formato, andrà ad accogliere lungo la linea di smalteria. Si tratta dunque di conseguire il giusto equilibrio in modo da evitare non solo problemi al manufatto ceramico ma anche ai macchinari e alle aree di lavoro circostanti.
Se l’atomizzato risultasse “troppo bagnato” e dunque contraddistinto da un eccessivo contenuto d’acqua potrebbe dare vita a problemi di natura produttiva. Potrebbe, ad esempio, rimanere parzialmente attaccato ai tamponi delle presse, costringendo gli operatori di produzione a procedere con operazioni di pulizia con conseguenti interruzioni della produzione.
Viceversa, un atomizzato con un contenuto di umidità residua troppo basso, che renderebbe il corpo ceramico meno compatto e – in termini decisamente poco tecnici – “più volatile” potrebbe provocare la dispersione della polvere nell’ambiente di lavoro che, andandosi a depositare sui macchinari e sulle piastrelle già pressate, potrebbe essere motivo complicazioni produttive e costituire al contempo un problema per gli operatori che agiscono lungo la linea.
Ciò che occorre conseguire è dunque il giusto equilibrio e trovare la corretta percentuale di acqua che se in fase di pressatura e formatura risulta essenziale, nelle successive fasi della produzione industriale potrebbe costituire un problema se non viene in qualche modo controllata e correttamente gestita. La gestione dell’acqua può passare anche attraverso l’uso di appropriati tenacizzanti.
Questi ultimi, infatti, aumentando il potere adesivo dei granuli consente di diminuire l’apporto di acqua, che di fatto è uno dei principali obiettivi di dei produttori (ridurre il quantitativo d’acqua significa lavorare con barbottine ad alta densità e ridurre conseguentemente i costi di produzione che sono principalmente legati all’energia necessaria al processo di evaporazione che prende parte sia negli atomizzatori che negli essiccatoi). Per i produttori ceramici, meno acqua si utilizza meglio è.
3. Barbottina, fase di additivazione e impatto reologico
La barbottina è la risultante del processo di macinazione a umido delle materie prime dell’impasto che vengono di norma miscelate con acqua e fluidificanti. Allo scarico mulino, la barbottina può avere due diverse destinazioni:
- Stazionare all’interno di vasche di stoccaggio interrate dotate di sistemi di agitazione non eccessivamente potenti utili ad evitare fenomeni di sedimentazione e/o gelificazione (dovuti alla natura tissotropica delle barbottine che in fase statica possono aumentare i loro livelli di viscosità)
- Essere trasportata direttamente all’interno dell’atomizzatore
Nella maggior parte dei casi i tenacizzanti vengono aggiunti all’interno della barbottina dopo la fase macinazione (e rarissimamente in fase di macinazione) e può essere aggiunto sia in vasca che in vena. Cosa significa?
Nel primo caso, il tenacizzante viene dosato per caduta dall’alto, sottoposto anch’esso a lenta e costante agitazione. Nel secondo caso, l’additivo viene aggiunto mediante tubazioni connesse al tubo principale che collega e trasporta la barbottina dal mulino alla vasca di stoccaggio: la miscela va in ogni caso a finire in vasca.
Qualsiasi sia la modalità di additivazione, i tenacizzanti temporanei devono in ogni caso rispondere a una necessaria condizione: non produrre un impatto negativo sulle caratteristiche reologiche della sospensione, nel nostro caso della barbottina. In altre parole, non devono alterare le proprietà che contraddistinguono le miscele alle quali vengono addizionati, come ad esempio i valori di viscosità o il limite di scorrimento. Un cambiamento, sia in un senso che nell’altro potrebbe a tutti gli effetti essere motivo di criticità: un aumento repentino della viscosità potrebbe portare la barbottina a rigonfiarsi e a creare il cosiddetto effetto soufflé rendendola difficilmente processabile; un’eccessiva diminuzione potrebbe viceversa condurre a spiacevoli fenomeni di sedimentazione. In sostanza, se la barbottina si trova in una condizione di stabilità, qualunque ulteriore additivazione non deve destabilizzarla.
Più in generale, qualunque tipologia di additivo deve essere contraddistinto da caratteristiche non critiche e questo significa che i componenti o ingredienti utilizzati in fase di formulazione e che andranno a costituire il prodotto finito non devono influenzare la stabilità o impattare sui parametri predefiniti. È altresì vero che una scelta può essere adeguata ad uno scenario ma produrre effetti indesiderati in un diverso contesto produttivo: come sempre si tratta di definire un prodotto su misura che soddisfi i differenti criteri usati dal cliente.
4. Elasticità e punto di rottura
La formulazione di un tenacizzante deve tenere in considerazione diversi fattori ma le due principali leve su cui attualmente focalizzare l’attenzione sono:
- Elasticità
- Punto di rottura del materiale ceramico
Nel primo caso ci si riferisce alla capacità di un materiale di deformarsi e tuttavia di tornare alla forma originale senza rompersi o senza subire danni. Tale processo può ripetersi nel tempo ma nel momento in cui si raggiunge il massimo punto di deformazione, o si va oltre, il materiale non è più in grado di recuperare la forma iniziale. Una volta superato punto di rottura invece (di norma testato in laboratorio per mezzo del crometro) il pezzo ceramico si rompe.
Il materiale in verde (cioè il materiale post pressatura/formatura che è più bagnato che non ha ancora subito il processo di essiccazione all’interno degli essiccatoi) è di norma più flessibile e, a parità di forza impressa, si flette maggiormente rispetto ad una piastrella essiccata. Quest’ultima, essendo più rigida risulta meno elastica subisce una deformazione minore prima di rompersi.
Senza voler offrire rigidi schematismi che portano inevitabilmente con sé approssimazioni ed errori, è tuttavia possibile affermare che – in termini assoluti – il materiale in verde è più elastico ma più fragile e delicato (per raggiungere il punto di rottura è sufficiente una forza non eccessiva). Viceversa, il materiale essiccato può essere considerato di norma meno elastico ma di certo maggiormente resistente.
Gli additivi tenacizzanti sono in grado di modificare sia l’elasticità che la resistenza meccanica in termini di punto di rottura e tali proprietà possono variare da caso a caso, da prodotto a prodotto. Cosa significa modificare l’elasticità?
Significa diminuire il modulo di Young del materiale, cioè quella grandezza che esprime la propensione di un materiale ad allungarsi o accorciarsi sotto l'azione di una forza di carico. In altre parole, la presenza dell’additivo consente al materiale di deformarsi in modo più significativo pur venendo sottoposto alla stessa forza e dunque di aumentare o spostare il punto di rottura. In altri casi l’additivo può lasciare inalterati i valori di elasticità consentendo tuttavia di aumentare lo sforzo che si può applicare prima di raggiungere il punto di rottura: in questo caso le particelle potrebbero essere più adese e dunque sostenere uno sforzo decisamente superiore.
I due sopracitati esempi mettono in evidenza come con gli additivi si possa agire su di una leva piuttosto che sull’altra, oppure su entrambe simultaneamente a seconda delle esigenze di produzione.
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